ANNO 14 n° 118
Livingstone in Salotto
Amore e paura
>>>> di Massimiliano Capo <<<<
10/08/2015 - 00:01

di Massimiliano Capo

VITERBO - Ho davanti agli occhi una vecchia foto in bianco e nero di Walter Benjamin seduto a un tavolo della biblioteca in cui ha trascorso mesi a trascrivere i passi e a scrivere gli appunti che sarebbero dovuti servire a comporre la stesura finale del suo libro lasciato incompiuto e dedicato a Parigi, capitale del XIX secolo.

Nella foto, Benjamin ha davanti a sé dei fogli e quei librini da cui risalire alla collocazione dei libri tra gli scaffali della biblioteca. Rilegati in pelle, li immagino consumati dalle dita dei tanti lettori che li hanno consultati.

Ha lo sguardo concentrato, la foto sembra non interessarlo, quasi non ci fosse una macchina fotografica a ritrarlo nello sforzo di compiere il pensiero. Alle sue spalle, due persone intente anche loro alle loro ricerche.

Benjamin lavora alla colata lavica dei frammenti che andrà a comporre uno dei più straordinari racconti della contemporaneità.

Oggi Flavia è in ferie e io avrei voluto cambiare il nome di questa rubrica per dedicarla a Benjamin. Faccio finta che sia così e, anche io, metto in fila frammenti.

''Fra gli chassidim si racconta una storia sul mondo a venire, che dice: là sarà proprio tutto come è qui. Come ora è la nostra stanza, così sarà nel mondo a venire; dove ora dorme il nostro bambino, là dormirà anche nell’altro mondo. E quello che indossiamo in questo mondo, lo porteremo addosso anche là. Tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso''.

Il mondo a venire. Solo un po’ diverso.

Una storia che apre lo spazio a mille altre storie.

Che poi è la forza del racconto: aprire nuovi spazi, disegnare nuove geografie, distendersi su nuovi territori.

Raccontare la trasformazione incessante che si offre dall’incontro con l’altro da noi.

Dare voce all’apertura, alla tonalità emotiva del riconoscimento reciproco e dello scambio.

Senza paura, perché ''la paura impedisce l’ispirazione e fredda l’amore''.

''Quando incontro una persona o anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto. E se guardo meglio, trovo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com’è ora, perché non posso approvare che la bestia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà così fatta non merita di durare. È una realtà provvisoria, insufficiente, ed io mi apro ad una sua trasformazione profonda, a una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della morte. Questa è l’apertura religiosa fondamentale, e così alle persone, agli esseri che incontro, resto unito intimamente per sempre qualunque cosa loro accada, in una compresenza intima, di cui fanno parte anche i morti''.

Finisco di scrivere questa cosa e me ne capita sotto gli occhi un’altra che porta dentro di sé tutta la forza della nostra provvisorietà e tutta la paradossale libertà che ne è figlia.

Racconta la stessa storia, di incanto e disincanto, e apre di nuovo lo spazio ad altri racconti.

''Sì. Dimenticheranno. È il nostro destino, non ci si può fare nulla. Ciò che a noi sembra serio, significativo, molto importante, col passar del tempo sarà dimenticato e sembrerà irrilevante. Ed è curioso che noi oggi non possiamo assolutamente sapere che cosa domani sarà ritenuto sublime, importante e che cosa meschino e ridicolo. E la nostra vita, che oggi viviamo con tanta naturalezza, apparirà col tempo strana e scomoda, priva di intelligenza, non sufficientemente pura, forse addirittura immorale''.

La mia storia, nella magia della sua finitezza, è la storia di un amore.

La mia storia è una storia d’amore.

La storia di ognuno di noi è una storia d’amore.

Quelli vissuti, quelli sognati, quelli negati, quelli finiti, quelli a venire. Come nella storia dei chassidim, uguali a come siamo ora ma un po’ diversi.

Perché nella tensione della relazione ricomponiamo quotidianemante i nostri confini.

''Una grammatica vera non conterrebbe l’infinito nella coniugazione di ‘amare''.

Perché l’amore è sempre di un soggetto. E’ sempre di un io che parla.

E’ sempre il nostro. È affermativo, si dice. Si pronuncia. Gli si da vita attraverso la parola.

Dire l’amore: possiamo fare di più?





Facebook Twitter Rss